My Eye, My Enemy / by Alessandro de Leo

Riporto il testo scritto da me, seguito dalle parole di Bruno Di Marino, circa la mia serie “My Eye, My Enemy”. L’intero lavoro è visionabile nella sezione “Ricerca Personale” di questo sito, o cliccando qui.

“Quando ho cominciato a scattare queste fotografie non mi ponevo molte domande, cercavo questo tipo d'immagini per istinto. Ad un certo punto, però, la risposta alla domanda che non mi ero mai posto (“perché fotografo in questo modo la gente?”) è arrivata senza il mio consenso, sorprendendomi: l'obiettivo sarà anche puntato verso il soggetto che ho davanti, ma non sto facendo altro che descrivere me stesso. Mi sono accorto improvvisamente che le immagini che realizzavo descrivevano il mio modo d'interagire con il prossimo: sfuggente, scostante, timoroso. I rapporti interpersonali mi creano spesso disagio, facendo sorgere in me un'immediata voglia di fuga. Senza saperlo, quindi, ho finito per rappresentare in fotografia ciò che vedo realmente delle persone: poco o nulla. Più che una serie di ritratti, quindi, ritengo che questa serie di scatti rappresenti invece un autoritratto, ripetuto ossessivamente a prescindere dalla persona che fotografavo.”

Alessandro de Leo, 2018

“L’idea della macchina fotografica come “inconscio ottico”, teorizzata da Benjamin e ripresa poi da un grande fotografo italiano come Franco Vaccari, potrebbe essere facilmente applicata a questa serie fotografica di Alessandro de Leo. Anche se, in questo caso, non ci troviamo solo di fronte a un dispositivo che, automaticamente, produce la sua immagine dell’inconscio, a prescindere dall’autore che scatta la foto. Anzi, l’inconscio è connaturato proprio della categoria ottico e connessa ai problemi della rappresentazione (del visibile, dell’invisibile, del rappresentabile). 
Le fotografie di de Leo – come sottolineato dal titolo della serie e da una sua dichiarazione – hanno piuttosto la funzione, riproducendo gli altri, di indagare se stesso, ovvero l’inconscio del fotografo. All’inconscio del dispositivo si affianca, insomma, quello dell’artista (ma non è sempre così, in fondo?) che, riflettendosi nei volti altrui, in realtà realizza sempre una sorta di autoritratto nelle sue molteplici varianti. 

Il volto non può che essere un’entità sfuggente, eterea, deforme, che giunge fino all’astrazione, dissolvendosi nel momento stesso in cui viene fissato dall’occhio del fotografo. I volti umani diventano quasi animaleschi oltre che fantasmatici. Scie luminose che affiorano dal buio, facce schiacciate contro un vetro (idealmente l’obiettivo stesso), congelate in una smorfia forse di dolore. 
La metamorfosi dinamica (o dinamizzata) che contraddistingue le figure, queste teste che sembrano replicarsi all’infinito, ricorda per certi versi il fotodinamismo di Bragaglia. Ma se in quel caso i tempi lunghi di esposizione restituivano una successione di movimenti, in questo caso il flusso della figura diventa una massa compatta, scultorea pur nella leggerezza e virtualità della luce che si raggruma sulla superficie argentica. Qualcuno semmai potrebbe accostarli, più agevolmente, alla pittura di un Bacon oppure a certi lavori di videoarte basati sulla deformazione elettronica. In ogni caso de Leo instaura con l’immagine un corpo a corpo e il suo occhio diventa anche il suo nemico. La fotografia è uno specchio, è lo spazio circoscritto di un combattimento che certifica l’impossibilità di riprodurre la vera anima delle persone e delle cose. 

Da questa idea di impotenza in fondo nasce l’arte. La vocazione realista del dispositivo è solo una fuorviante illusione. L’occhio del fotografo – attraverso la macchina – crea l’immagine di una realtà che ci sfugge pur lasciando tracce, simili ma diverse l’una dall’altra. E in questo meccanismo di ripetizione e differenza si può cogliere un altro aspetto delle fotografie di de Leo, istantanee che sembrano non aggiungere nulla all’orizzonte del visibile, se non l’ansia di una continua verifica nel rapporto tra Io e Altro, due entità che sembrano rincorrersi e fondersi insieme nei labirinti inestricabili dell’inconscio. Esistenziale ed ottico.” 

Bruno Di Marino, 2018