fresh legs 2020

Alessandro De Leo’s heavily contrasting black and white photos feature traces of faces and bodies. The subjects appear to be in motion, defying the human eye and emphasizing the constant changing of the matter.

Alessandro De Leo is a photographer based in Italy. Recently, he combined his passion for art with his profession, becoming a teacher of digital post production. De Leo’s heavily contrasting black and white pictures feature traces of faces and bodies. The subjects appear to be in motion, defying the human eye and emphasizing the constant changing of the matter.

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In De Leo’s pictures black and white are like spaces inhabited by the bodies, which move freely leaving traces of their passage. White is the light that makes the figures visible and it is in contrast with the black, the shadow, which tends to hide the matter. White is therefore compared to the flash of a camera which enlightens the scene captured by the photographer.

There is more than one heavy contrast in De Leo’s photographs. Black and white, light and shadow, what is shown and what is hidden are the elements in contrast in the Italian photographer’s pictures. In each contrast the elements are like voices in a continuous dialogue, an endless pattern of calls and responses which never actually gets to a final point. 

These elements are in anthesis with each other but also collaborate to create a flow and a strong energy in the images which yet result quiet and silent. De Leo’s pictures are not traditional portraits. The viewer might feel unsettled in front of De Leo’s photographs, since those faces and bodies and their expressions are not recognisable. However, it is not interesting anymore for the viewer to know who is the subject of the portrait, if it is a man or a woman and what are its expressions and thoughts. It is more a matter of the traces left by the figure and its motion, in the exact moment when all is captured by the light. These images depict a matter in constant change and most of all, they enhance the human’s elusive and rapid approach to life. The pictures show how very often the human eye does not really stop on the objects, preferring to see things and not to observe them. The camera takes over for the human eye, not capturing the matter but what is left of it: luminous trails or shadows. It might be seen in De Leo’s works something deeper. They seem to be the evidence that very often we are not able to see things for how they really are and, more profoundly, they show a sense of incommunicability and  the impossibility for the human being to be deeply understood.

Galleri Heike Arndt DK
giugno 2020

divenire - testo critico

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Il bianco e il nero. Non colori ma spazi esistenziali abitabili. Il bianco è la luce, quella parte dello spettro elettromagnetico che rende visibile tutto ciò che esiste e che occupa uno spazio. Improvviso e accecante, mostra soltanto le forme essenziali, le brucia come se fossero sottoposte a un lampo nel cuore della notte, a un flash, rivelandone solo i dettagli più inequivocabili. Elegante e pulito, ma allo stesso tempo studiato e complesso. Silenzioso, veste l’ambiente, quasi irriconoscibile, di una sacralità impalpabile.

Il nero è la materialità dei corpi e del corpo, di quello che è presente nonostante il bagliore, che esiste autonomamente e che, naturalmente, anela al movimento, che forse è il principio fondamentale attorno al quale la vita si sviluppa. Non descrive ciò che è, non lo spiega, ne segnala la presenza. Il nero è ciò che c’è di più vicino al reale, a noi e a ciò che come noi è carne, oltre che energia.

Tra bianco e nero, tra quello che è intorno e quello che siamo non ci sono passaggi netti. Non contorni, non linee. Tra bianco e nero la vista si offusca e non sa dove appoggiarsi. È confusa, non capisce se è la luce ad assorbire i corpi che pure rimangono aggrappati a una condizione inevitabilmente umana o se sono le figure a cercare di spandersi, per confluire di nuovo in un flusso dal quale abbiamo deciso di discostarci troppo tempo addietro. È un dialogo continuo e senza soluzione. Le foto di Alessandro de Leo raccontano la materia come concetto in movimento, costantemente in divenire, che cerca di slegarsi dalla forma perché simile a ogni altra cosa, anche all’aria in cui galleggia. Tocchiamo e ci lasciamo toccare: in questo modo entriamo in contatto con del materiale genetico che non ci appartiene ma che più o meno consapevolmente ci cambia dall’interno, a livello chimico. E poi mangiando, respirando, introduciamo in noi materia e quella materia viene tessuta insieme alla nostra e ci rende diversi ogni istante rispetto al precedente, paurosamente instabili e vivi. Il corpo si trasforma e si fa codice indecifrabile. Lo spazio si trasforma e ci asseconda, incorpora con gentilezza ogni cambiamento. L’unico punto fermo è il movimento.

Carmelania Bracco
novembre 2019

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my eye, my enemy - articolo su “barl’e’”

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MY EYE, MY ENEMY - testo critico

L’idea della macchina fotografica come “inconscio ottico”, teorizzata da Benjamin e ripresa poi da un grande fotografo italiano come Franco Vaccari, potrebbe essere facilmente applicata a questa serie fotografica di Alessandro de Leo. Anche se, in questo caso, non ci troviamo solo di fronte a un dispositivo che, automaticamente, produce la sua immagine dell’inconscio, a prescindere dall’autore che scatta la foto. Anzi, l’inconscio è connaturato proprio della categoria ottico e connessa ai problemi della rappresentazione (del visibile, dell’invisibile, del rappresentabile). 
Le fotografie di de Leo – come sottolineato dal titolo della serie e da una sua dichiarazione – hanno piuttosto la funzione, riproducendo gli altri, di indagare se stesso, ovvero l’inconscio del fotografo. All’inconscio del dispositivo si affianca, insomma, quello dell’artista (ma non è sempre così, in fondo?) che, riflettendosi nei volti altrui, in realtà realizza sempre una sorta di autoritratto nelle sue molteplici varianti. 

Il volto non può che essere un’entità sfuggente, eterea, deforme, che giunge fino all’astrazione, dissolvendosi nel momento stesso in cui viene fissato dall’occhio del fotografo. I volti umani diventano quasi animaleschi oltre che fantasmatici. Scie luminose che affiorano dal buio, facce schiacciate contro un vetro (idealmente l’obiettivo stesso), congelate in una smorfia forse di dolore. 
La metamorfosi dinamica (o dinamizzata) che contraddistingue le figure, queste teste che sembrano replicarsi all’infinito, ricorda per certi versi il fotodinamismo di Bragaglia. Ma se in quel caso i tempi lunghi di esposizione restituivano una successione di movimenti, in questo caso il flusso della figura diventa una massa compatta, scultorea pur nella leggerezza e virtualità della luce che si raggruma sulla superficie argentica. Qualcuno semmai potrebbe accostarli, più agevolmente, alla pittura di un Bacon oppure a certi lavori di videoarte basati sulla deformazione elettronica. In ogni caso de Leo instaura con l’immagine un corpo a corpo e il suo occhio diventa anche il suo nemico. La fotografia è uno specchio, è lo spazio circoscritto di un combattimento che certifica l’impossibilità di riprodurre la vera anima delle persone e delle cose. 

Da questa idea di impotenza in fondo nasce l’arte. La vocazione realista del dispositivo è solo una fuorviante illusione. L’occhio del fotografo – attraverso la macchina – crea l’immagine di una realtà che ci sfugge pur lasciando tracce, simili ma diverse l’una dall’altra. E in questo meccanismo di ripetizione e differenza si può cogliere un altro aspetto delle fotografie di de Leo, istantanee che sembrano non aggiungere nulla all’orizzonte del visibile, se non l’ansia di una continua verifica nel rapporto tra Io e Altro, due entità che sembrano rincorrersi e fondersi insieme nei labirinti inestricabili dell’inconscio. Esistenziale ed ottico. 

Bruno Di Marino

settembre 2018

tracce II

La Wunderkammern dedicata a Alessandro de Leo, che presenta alcuni lavori appartenenti alla serie Tracce II, offre l’occasione di ammirare il percorso dell’artista, l’evoluzione della sua opera e il legame tra questa serie e la precedente Tracce, che è presente nell’ebook. Nella prima serie possiamo osservare volti che compaiono, epifanici, dal buio, di cui emergono i primi tratti somatici, giochi di scarsa luce che permettono di distinguere nel buio spesso in cui sono immersi solo alcuni dei caratteri che ci fanno associare una persona ad un volto. Si tratta di un equilibrio labile tra il mostrarsi ed il nascondersi, tra l’abbandonarsi all’oblio nero dello sfondo e permettere alla luce di dis-velarci, di squarciare il velo di Maia e di offrirci all’osservatore come rappresentazione. L’espressione del viso, ciò che ci caratterizza e rende intellegibili i nostri sentimenti (“gli si legge in faccia”, diciamo spesso) si intuisce senza vedersi veramente, lasciando sospeso il nostro giudizio, lasciandoci solo delle tracce.

L’effetto simbolico della traccia, il suo rimandare-ad-altro che non è lì nel momento, il suo rimandare a quell’attimo in cui la traccia viene lasciata, è ciò che caratterizza la serie seguente (Tracce II). In queste foto de Leo cattura una porzione più generosa dei visi che mette in scena, li fa emergere maggiormente dal buio, ma frappone poi una barriera trasparente, che finisce ancora una volta per rendere difficile la comprensione profonda delle espressioni dei suoi soggetti. I visi appaiono deformati, compressi tra il buio da cui emergono e la barriera trasparente che li ferma. È quasi come se fossero premuti contro l’obiettivo della macchina fotografica, finendo per essere non più comprensibili nella loro ansia di mostrarsi in maniera eccessiva. Il fotografo sembra voler fermare l’attimo in cui il corpo lascia il segno, in cui lascia la propria traccia sul vetro e al contempo viene catturato (e lascia una traccia) sulla pellicola. Alla contrapposizione nascondersi/mostrarsi viene aggiunto un nuovo termine, col deformarsi del viso, quasi a simboleggiare l’impossibilità di essere compresi fino in fondo, l’ineluttabilità del nostro osservare attraverso filtri gnoseologici, il non poter mai guardare le cose “come sono realmente”.

Le due serie di opere si parlano e ci parlano, ci mostrano qualcosa di noi e ci spingono a porci delle domande su come conosciamo e come ci facciamo conoscere, domande quanto mai attuali nell’epoca di sovracomunicazione in cui viviamo.

Aldo Torrebruno

novembre 2016


striscia di grano

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"In un vastissimo prato verde sulle Murge una striscia di grano non ancora maturo conduceva ad un albero solitario. La luce del tramonto ha reso dorate le spighe non ancora gialle. Ho accentuato il contrasto cromatico in postproduzione".

La natura, è banale dirlo, è in grado d'offrire spettacoli meravigliosi, ma il fatto in sé non basta: ci vuole un fotografo in grado di coglierne l'essenza e trasformarla in immagine. In questa fotografia, allo stesso tempo energica e delicata, composizione, esposizione e profondità di fuoco concorrono a regalarci un colpo d'occhio emozionante.

 

Fotografia Reflex

febbraio 2013


Tracce

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Se dovessimo lanciare uno sguardo sulla produzione fotografica di Alessandro de Leo, vedremmo una forte accezione formale delle sue composizioni. L’attenzione al dettaglio, dalla sua ricerca e alla sua messa in evidenza, si rivela anche all’occhio profano.

Tra i generi preferiti campeggia il ritratto in studio. La sua ricerca si è svolta nell’ultimo anno di lavoro, nel tentativo di giungere ad una sintesi decisa. L’evoluzione della capacità di giostrare la luce nella maniera opportuna ha portato ad una progressiva eliminazione del superfluo. Tutto ciò che era in eccesso è stato rimosso e, se inizialmente sono state messe in ombra solo alcune parti del soggetto e se tutti i toni di grigio erano presenti nelle sue fotografie rigorosamente in bianco e nero, questa volta ciò che Alessandro de Leo ci propone è diverso.

La serie presentata offre una visione nuova dei suoi modelli, trattati alla stregua di oggetti. Non è fondamentale capire chi ha posato davanti all’obiettivo di de Leo e non è nemmeno indispensabile discernere se si tratti di un uomo o di una donna. Essenzialmente è difficile riuscire ad individuare il volto del soggetto e riconoscerlo, ma è possibile rivelarne delle tracce, sezioni, dettagli, che si lasciano disegnare dalla luce, proveniente dall’alto, su uno sfondo nero, uno sfondo che sembra quasi inghiottire anche chi è semplice spettatore dell’esposizione.

Niente è nitido, difficilmente si riesce a distinguere chiaramente cosa la luce sceglie di svelare. Quasi come un buco nero, il buio invade il nostro sguardo, ma il tentativo di mettere a fuoco ciò che è sulla superficie fotografica non resta vano. È là, la trama riesce ad emergere e una traccia ci dona le coordinate per osservare questi insoliti ritratti. Il nostro sguardo non viene mai attraversato da quello del soggetto, troppo in ombra per poter emergere. Anche quando i volti sono frontali, l’oscurità divora ogni contatto. A regnare sembra quasi una sorta di incomunicabilità con chi è spettatore.

Analizzando la tecnica fotografica utilizzata, questa è capace di amplificare il semplice concetto di ‘trama’: la pellicola conserva ancora proprietà materiche ben diverse dalla moderna tecnica digitale. Senza nulla togliere all’evoluzione tecnica, il contatto con quella particolare manualità propria della macchina fotografica analogica e dei procedimenti di sviluppo e stampa in camera oscura possiedono una particolare aura e una dimensione altra.

La mostra ci pone davanti una serie di interrogativi che non trovano risposte concrete, ma che, forse, ci spingono a cercare riscontri nel nostro vissuto.


Dott.sa Lucrezia Modugno

22 luglio 2012